SIOR TITA PARON

Commedia in tre atti di Gino Rocca

Regia: Stefano Baccini
Tito, Velada Stefano Baccini
Carlotta Marina Bertoncin
Teresina Claudia Seno
Serafin, Ciocio Piergianni Paiuscato
Nane, radicio Franco Fortin
Stròpolo Andrea Pastorello
Sior Isepo, fator Bepi Quaglio
Achille, chauffeur Daniel Bertazzo
La siora Catina Carla Borile
Giacometo Enrico Berto
Un fattorino Massimo Rosati


Collaborazione artistica: Antonietta Cavazzini Bortoloni - Servizi tecnici: Franco Riatti
Assistenti di scena: Placida Toniolo, Nicoletta Longhin, Alessandro Sguotti, Anna Maria Cappozzo

Veneto tra le due guerre. I servitori di una grande azienda terriera, di ritorno dal funerale del vecchio padrone, morto in solitudine, vengono a sapere che erede di tutte le sostanze non è – come si pensava – un semisconosciuto nipote; bensì Tita, il fedele “velada” (ossia maggiordomo di casa, dal nome dialettale della giacca a code).
Fedele si fa per dire, perché abituato come tutti gli altri dipendenti (se non più degli altri) a fare la cresta sulla gestione della villa, specie negli ultimi anni di grave infermità del padrone. Già prima di sapere dell’imprevisto lascito, Tita aveva peraltro proposto alla cuoca Carlotta di ritirarsi con lui a godere la fortuna raccolta.
Ma una volta conosciute le disposizioni testamentarie i compagni di lavoro voltano rabbiosamente le spalle a Tita, tanto da rendergli impossibile la conduzione della proprietà. Disperando di poter mutare la situazione, tanto con le maniere buone quanto con quelle forti – considerato anche che l’eredità è vincolata al mantenimento in servizio dei vecchi dipendenti – Tita compie una mossa inaspettata: propone di riprendere per sé il ruolo di “velada” e di ribaltare le parti…

Sior Tita paron, andata in scena nel 1928, è la seconda grande prova come commediografo in veneto di Rocca. L’opera è mirabile non soltanto per l’originalità della trama; quanto per l’abilità scenica con cui vengono tratteggiati i caratteri dei personaggi e le loro interazioni: prima la complicità nelle furfanterie, poi il livore verso Tita degli altri servitori e la loro reciproca diffidenza, quindi lo spontaneo ed ineluttabile patteggiare. Utilizzando, come nella precedente commedia Se no i xe mati, no li volemo, i casi aperti da un bizzarro testamento, Sior Tita paron prende le mosse da una lugubre atmosfera da funerale, proseguendo verso una grottesca comicità.
Non è difficile scoprire, nel fluido scorrere delle battute e delle situazioni, una dimensione metaforica del testo: il potere che Tita sembra offrire agli altri servitori è in effetti soltanto un miraggio; tanto che questi finiscono col delegare – e solo in apparenza spontaneamente – tutte le decisioni ad un “capo”. Vi è sotteso un fine ideologismo autoritario, che certo non sorprende in un intellettuale vicino al fascismo (per principio avverso al teatro dialettale, allora nella sua epoca d’oro, in quanto contrario – asseriva il Duce – all’unità nazionale…).
Ma l’opera d’arte, si sa, fa inevitabilmente i conti con la contingenza storica. Rimane inconfutabile il valore letterario e la forza drammaturgica delle commedie di Gino Rocca, “dopo Luigi Pirandello, il nostro maggiore scrittor di teatro” – ebbe a scrivere Eugenio Ferdinando Palmieri – “per la sostanza umana e fantastica e per lo stile”.

GINO ROCCA (1891-1941), commediografo, poeta, giornalista e scrittore.
Trascorsa l’infanzia tra le vallate bellunesi di Fonzaso e Feltre, patria della madre, compiuti gli studi tra Venezia, Treviso, Padova e Torino (dove interruppe l’università), iniziò l’attività drammatica nel 1914, affidando a Ferruccio Benini – massimo interprete del teatro veneziano, attore prediletto di Giacinto Gallina e di Renato Simoni – il suo primo copione, El sol sui veri: un dramma ambizioso, ancorché acerbo, subito notato dalla critica. Conquistò nel panorama nazionale un ruolo di tutto rilievo a partire dal 1925 (con Gli amanti impossibili), quando le compagnie italiane si contendevano i suoi lavori. Rocca ebbe un atteggiamento artistico sperimentale, anche se lontano dalle avanguardie storiche, che lo portò ad esplorare numerosi generi drammatici e letterari: dal dramma alla satira, alla commedia borghese, d’ambientazione esotica o avveniristica.
Nel repertorio veneto meritò nel 1926 il suo primo grande successo con la celebre commedia Se no i xe mati, no li volemo, unanimemente riconosciuta come la più significativa del nostro teatro dialettale e tra i maggiori testi del teatro italiano del Novecento.
Altri titoli d’immediata e duratura popolarità, scritti nel periodo più fecondo del sodalizio tra Rocca e Gianfranco Giachetti (l’attore e capocomico maestro di Cesco Baseggio) sono Sior Tita paron (1928) e Mustaci de fero (1932), che offrono - con sapida ironia ed un’originale comicità - uno straordinario affresco sociale del Veneto tra le due guerre. Il commediografo si dedicò anche alla composizione di numerosi atti unici, sia in lingua che in dialetto: veri “classici” del teatro veneto restano L’imbriago de sesto (1927) e La scorzeta de limon (1928).